VIMEN - racconto

 


Nessuno dovrebbe dissolversi in estate. La stagione non si addice al tormento dell'anima di chi resta. L'autunno, invece, ben l'accompagna.

Oltre il mio riflesso sul vetro le prime foglie dorate di cedro tentennavano sui rami, salutando le loro compagne prima dell'ultimo estremo atto. Erano forse anime quelle? Alcune esitavano guardando verso il basso, altre palpitavano tremanti mentre brillavano bagnate dall'astro autunnale tiepido e gentile che spuntava oltre bianche nuvole oblunghe dirette a est. Il vento orchestrava tutti gli elementi da gran maestro e mi rattristò non poter sentire la sinfonia che stava creando. Che senso aveva se nessuno poteva udirla?

Fu un attimo prendere la decisione che avrebbe firmato la condanna che adesso grava sulla mia testa ma della quale non posso parlare ad anima viva.

Sì, dico bene, viva, perché quelle dei morti non mi rinchiuderebbero in un manicomio se ascoltassero quel che ho da dire. Se state leggendo queste parole allora non ha più importanza.

Accadde una domenica di fine Settembre.

«Esco per una passeggiata» dissi alla figura dondolante vicino al camino spento in attesa del primo freddo. Non restava nulla della donna che era stata un tempo. Mia madre occupava le sue giornate ricamando e imbastendo vestiti per nessuno in particolare; un atto compulsivo e, come tale, non poteva essere interrotto se non dall'ora del tè. Distoglierla da quel lavorio incessante poteva voler dire scatenare una crisi di nervi che l'avrebbe costretta a letto per giorni interi.

«È necessario Adelaide?» chiese senza distogliere l'attenzione da quel che faceva.

«Non esco da giorni, mamma, mi serve un po' d'aria fresca» dissi indossando il mantello nero che, come il vestito, mi copriva fino alle caviglie. Vestivamo il lutto da mesi. La vidi annuire, mi avvicinai per darle un bacio sulla sua fronte corrucciata e lei si fermò per un istante: da quando le sue delicate mani erano diventate così nodose e febbrili? Le accarezzai con affetto, lei le ritrasse come se quel gesto le procurasse dolore. Era come se da loro dipendesse la nostra sorte: cucire i brandelli di un passato che non sarebbe più tornato.

Eravamo rimaste sole. In una bianca domenica di Gennaio il cuore di mio padre aveva ceduto alla disperazione per la tragedia che ci aveva colpito l'estate precedente. Il piccolo Victor, il mio dolce fratello, era scomparso mentre giocava in giardino. Nonostante le ricerche che coinvolsero anche gli altri abitanti di Willowood ancora non avevamo un corpo da seppellire, non una notizia per la quale sperare, né un bambino da riabbracciare. Erano passati nove mesi e cinque giorni.

«Torna per il tè» disse con la sua voce resa rauca dal silenzio prolungato.

Chiusi la porta alle spalle lasciando mia madre assieme ai fantasmi della nostra famiglia.

Mi avviai di buon grado verso il bosco che costeggiava il paese per raggiungere il solitario salice bianco a me caro. Avevo spesso cercato la sua singolare compagnia per dedicarmi alla lettura di romanzi. Amavo leggere, spesso io e Victor lo facevamo assieme, lui sceglieva una storia e si accoccolava accanto a me in attesa che io gliela leggessi. Era uno dei nostri passatempi preferiti. È poco appropriato per una donna leggere in pubblico, per questo avevo scelto un posto isolato e sicuro. Nessuno voleva avvicinarsi al lago sul quale si affacciava l'albero piangente. Colpa delle dicerie che gli abitanti nutrivano tramandandole ai loro figli e ai figli dei loro figli.

Un'antica leggenda voleva che spiriti maligni vivessero in quelle acque da millenni e si cibassero delle anime pure e incoscienti che osavano avventurarsi da quelle parti. Anche il mistero di Victor fu spiegato con la superstizione qundo non trovarono nessuno da colpevolizzare: i più avevano chiuso il caso dicendo che mio fratello fosse stato vittima delle Presenze.

Tutte sciocchezze! Ovvio! Erano solo storie raccontate per regalare brividi ai presenti durante le lunghe veglie d'inverno. Per fortuna io non ero una credulona.

Imboccai il sentiero sterrato solcato dal passaggio dei carri carichi di merci diretti dal villaggio verso la città di Whertington. Uno scalpiccio di zoccoli sparì in lontananza, il cinguettio degli uccelli era interrotto dal tonfo secco delle ghiande che cadevano sul terreno mentre il sottobosco frusciava spinto dalla brezza delle prime ombre del giorno. Ero incantata.

Mi fermai davanti all'Arco degli Amanti creato dall'intrecciarsi delle chiome di due ippocastani secolari rivestiti d'edera. Oltre l'arco il sentiero continuava per circa un chilometro prima di sfociare in una strada più ampia che portava al centro del paese dove spiccava il campanile. A destra la collina camminava verso l'alto fino alla Torretta, un fortino militare abbandonato adesso abitato da barbagianni e altre creature notturne. Oltre si estendevano i pascoli ondeggianti fino a valle con macchie di brughiera cangiante sfiorata dalle correnti che si creavano in queste terre bitorzolute.

Dall'altro lato il pendio si tuffava per buona parte nelle verdi acque iridescenti del lago.



Seguii la piccola discesa verso il salice e lì, maestoso e immutato, lo vidi duettare col vento. Mi avvicinai ai rami cadenti che accarezzavano la riva, li scostai con gentilezza come la tenda di un letto a baldacchino e sedetti toccando il tronco bruno. La gonna si sgonfiò in uno sbuffo, sistemai il mantello coprendomi col cappuccio e ripresi la lettura da dove l'avevo lasciata.

Non so ben dirvi la sensazione che provai di totale estraneazione dalla mia triste condizione ma ( non mi fa onore raccontare quanto sto per dire) ne fui grata. I rami danzanti mi nascondevano al mondo, quel mondo che voleva mio fratello disperso, mio padre morto e mia madre assente in una casa che la mia presenza non era sufficiente a colmare. Io non ero abbastanza. Dimenticai il motivo per cui ero vestita di nero, scordai, se mai si possono scordare certi sentimenti, il dolore per la perdita di ciò che mi era più caro.

L'incanto fu rotto dal respiro del canneto poco distante dal punto in cui mi trovavo, un canto sinistro che sembrava provenire dalle profondità della terra mi raggiunse. Non mi accorsi subito del cambiamento repentino del tempo sopra di me. Era ora di far ritorno a casa. Alzandomi toccai la corteccia del mio amato Salice: piangeva! Rivoli verdeggianti d'acqua seguivano le insenature del tronco andando, contro ogni logica, verso l'alto! Scossi la testa per ridestarmi. Sotto il palmo della mano sentivo un fremito leggero e colsi un lamento sommesso. Mi scostai, sicura di essere vittima di un'allucinazione. Oltrepassai i rami bagnandomi il mantello e persi l'equilibrio per le radici esposte che prima, ne ero quasi certa, non c'erano.

Feci pochi passi oltre il salice che continuava a piangere sfidando le leggi della Terra, una nascente nebbiolina sottile e lattiginosa avanzava lentamente ricoprendo il suolo. Non riuscivo più a scorgere gli orli della gonna, né le mie scarpe. Se qualcuno mi avesse scorto in quel momento quasi sicuramente avrebbe visto una sagoma nera fluttuare sulla nebbia.

La superficie del lago era increspata e buona parte della riva era scomparsa sotto acque melmose di un verde catarrale; lasciai il canneto ormai urlante alle mie spalle e proseguii con l'animo irrequieto.

Le goccioline di pioggia erano sospese in aria vittime di un incantesimo che non riuscivo a spiegare.

Oltre le fronde degli alberi il cielo era cupo e minaccioso, le nuvole vorticavano irrequiete creando ombre dalle forme inquietanti in continua evoluzione. Stavo percorrendo il sentiero quando sentii un fruscio troppo vicino, inciampai nel tentativo di vedere di cosa o chi si trattasse. Caddi in avanti strisciando le mani nel terreno che si era fatto fango. Alzai lo sguardo e vidi due lucine tra i rovi di more, poi quattro e otto, il terrore si impossessò di me! Dio del cielo ma erano occhi quei punti luminosi! Occhi famelici che mi fissavano! Mi rialzai e iniziai a correre incurante degli stivaletti nuovi che avevo ai piedi: non erano stati una buona scelta, rischiavo una slogatura a ogni passo, ma qualche ora prima non avrei mai pensato di diventare una preda in fuga. Ma da chi?

Dal sottobosco creature striscianti mi seguivano, udivo risate di scherno e lamenti raccapriccianti. I miei movimenti rallentavano contro la mia volontà, l'ansia iniziò a impadronirsi di me e la vista si offuscò tanto che temetti di svenire e non fare mai più ritorno a casa.

Ogni elemento del bosco sembrava collassare su di me, braccata e rallentata tra la nebbia che si stava alzando sempre più densa.

Pensai a mia madre sulla sedia a dondolo intenta a ricamare con mani ansiose in attesa del mio ritorno per il tè, sola in quella casa in cui echeggiavano le assenze.

Stremata senza avere più cognizione del tempo concentrai tutte le mie forze per non perdermi. La nebbia stava mangiando i contorni del bosco, il sentiero era invisibile, non sapevo dove mettevo i piedi e il petto dolorante opprimeva i polmoni. La pioggia prima sospesa iniziò a ricadere fitta appesantendo le chiome verdi su di me. Il vestito si fece più pesante rallentandomi ancora. Correvo, sudavo sotto il mantello eppure mi sembrava di non riuscire a fare che qualche centimetro alla volta. Ero sulla via principale, almeno così credevo, un'ultima curva e avrei intravisto la strada che mi avrebbe riportato a casa. Mi fermai per riprendere fiato appoggiandomi sulle ginocchia. I capelli prima raccolti in una treccia adesso erano attaccati alla faccia come un velo.

Ogni borbottio, lamento e risata erano cessati. Un silenzio tombale mi circondò e credetti di essere morta o diventata sorda. Non un sospiro di vento. Tutto era fermo.

Un cigolio metallico. Rialzai la schiena e restai in ascolto immobile. Un lento gemere ritmato: cigolio, vuoto, cigolio, vuoto, cigolio, vuoto. Mi voltai anche se tutto di me diceva di non farlo. Alla mia destra c'era un breve sentiero di mattoni rossi ricoperti dal muschio che portavano ad un piccolo spiazzo con giochi per bambini. Sapevo che avrei dovuto proseguire, girare a sinistra e sperare di vedere la strada principale. Invece mossi qualche passo sul tappeto di mattoni rossi e vidi una figura minuta rannicchiata sull'altalena, ricurva su se stessa. Era un bambino, non doveva avere più di sei o sette anni a prima vista. Dondolava al centro di un pozzo di luce circondato da scheletrici alberi neri con rami nodosi e spogli che si contorcevano verso l'alto. Quel luogo era come un carillon fatto di ossa con un piccolo essere condannato a ciondolare ad ogni ricarica, in eterno.

Avevo già vissuto quel momento, non sapevo quando né come fosse possibile eppure riscoprii un'antica paura alla quale non sapevo nemmeno dare un nome.

Feci quel che ci si aspetta da un'anima sprovveduta e sconsiderata o compassionevole e materna, dipende dai punti di vista: mi allontanai dalla salvezza avvicinandomi al bambino.

Lo scricchiolio dei rami sotto il mio peso era l'unico rumore oltre l'incessante cigolio metallico dell'altalena dai cardini arrugginiti. Il terreno era gonfio d'acqua, le chiome degli alberi gocciolavano di un silenzio perpetuo, antico, che non apparteneva a questo mondo e io stessa sentivo le gocce di sudore solcarmi la pelle. Non sapevo se stesse ancora piovendo o se le gocce scivolavano giù dalle foglie dei sempreverdi.


foto di Catalin Buescu

Anche la minuta figura immobile in quella posizione innaturale e cadente, era pregna d'acqua; l'oro dei suoi capelli era nascosto dal fango, indossava una maglietta sudicia e i calzoni erano strappati in più punti lasciando la pelle nuda esposta. Portava una sola scarpina con i lacci moribondi ai lati.

Fu il piedino nudo a colpirmi: sotto quel che sembravano macchie di muschio il colore della pelle era grigiastro come pietra.

Il bambino alzò la testa e mi guardò. Il mio cuore iniziò ad accelerare spingendo sulle costole in cerca di spazio, il petto si fece pesante in preda al panico. Ero turbata, scioccata, impietrita e felice. Victor. Era mio fratello! Quale fortuna in questo incubo!

«Victor!» esclamai con una voce che non mi apparteneva.

Ero forse giunta alla follia?

Gli andai incontro senza esitare. La paura non era cessata, si arrovellava dentro di me mettendo radici là dove si accoccola l'anima ma fu sopraffatta dalla gioia di vedere Victor vivo. Oh, se solo mio padre avesse resistito!

Victor non si muoveva, mi fissava con i suoi grandi occhi azzurri, cerchiati di nero, che spiccavano in quel mondo divenuto grigio e senza speranza alcuna come due lucciole in un inverno senza fine.

Provai a prendergli la mano serrata sulle catene dell'altalena che non smetteva di dondolare e cigolare. La presa era salda, la sua mano raggrinzita era scivolosa e io non riuscivo a smuoverlo.

«Victor, dobbiamo andare» dissi per spronarlo.

Le voci stavano tornando, le sentivo sempre più vicine.

Riuscii a farlo scendere ma non mi seguì. Victor opponeva resistenza, la sua mano magra e ossuta nella mia scivolava e così lo afferrai dal polso, anche questo smunto. Non era più il bambino paffuto e solare che aveva vissuto con noi ma era pur sempre Victor e forse un giorno ci avrebbe raccontato cosa era accaduto da quella domenica di Gennaio in cui sparì senza lasciare traccia.

Mi colse un dubbio, e se il suo aggressore fosse ancora nei paraggi? Forse lo stava cercando proprio in quel momento.

Ero restia a guardarlo, avanzare era sempre più faticoso e ormai il terreno trasudava acqua, si erano create piccole pozze in cui si rifletteva il bosco in forme deformi, le risate di scherno ovattate da un velo invisibile ricomparvero assieme ai fruscii tra gli arbusti e riconobbi quel lamento che avevo sentito vicino al salice piangente.

«Victor dobbiamo sbrigarci, lo capisci?» chiesi e avrei continuato se la voce non si fosse spezzata in gola guardando il volto di mio fratello che cambiava forma come una bolla di sapone, i suoi lineamenti si deformavano, si gonfiava da un lato e sgonfiava dall'altro incessantemente. Camminava sulle punte dei piedi impettito e muto con lo sguardo fisso davanti a sé. La pelle violacea con i contorni grigi e le labbra serrate per trattenere l'acqua! Rivoli scendevano dai lati della bocca e dalle orecchie; gli occhi liquidi venati di rosso come dopo un pianto ininterrotto e Victor continuava a tirarmi indietro. Non capivo perché non volesse fuggire con me, forse non mi riconosceva? Ero atterrita dai dubbi, ci avrei pensato una volta a casa.

Non ero sicura ma sentii il sentiero bitorzoluto e ghiaioso sotto i piedi; la nebbia ormai era alta e densa fino alla vita, io non riuscivo a vedere quasi nulla se non mio fratello ingabbiato in un incubo.

Ero decisa a riportarlo a casa, salvarlo da questo luogo dannato.

«Victor respira!» dissi accelerando ancora trascinando mio fratello al mio fianco. Forse gli stavo chiedendo uno sforzo eccessivo nelle sue condizioni, che altro avrei dovuto fare? Dovevamo salvarci da qualunque cosa volesse arrivare a noi, perché sapevo che non eravamo soli. Ne ero certa.

Una forza opprimente rallentava il nostro incedere maldestro. L'acqua sgorgava da ogni parte tanto che credetti di morire annegata nel bosco sommerso. Questa folle idea venne rafforzata dal ruggito del lago in lontananza, il gorgoglio dell'acqua si fece più intenso e un lampo precedette il boato del cielo che in risposta si stava squarciando sopra le nostre teste. Mi voltai giusto il tempo di vedere un fulmine che si divise il cielo in due e io fui sicura, senza poterlo vedere, che si fosse abbattuto sul mio salice piangente.

Eravamo ormai vicini alla strada confinante il bosco, controllavo Victor per il timore che si liquefacesse accanto a me come se questa pazzia fosse normale.

Avrei voluto tapparmi le orecchie per non sentire più l'eco di quelle risate trasportate dal vento che aveva ricominciato a soffiare rabbioso scuotendoci come fuscelli d'erba verde pallido.

Poi la vidi. Un miraggio. La strada sterrata. La strada dei vivi. La strada che mi era tanto familiare!

«Dai Victor, un ultimo sforzo e siamo salvi!» dissi ansimando col capo in avanti come se potessi farmi spazio tagliando l'aria.

Appena raggiungemmo la strada la sensazione di morte imminente venne mitigata dall'umana speranza.

Dietro di me il sentiero aveva perso ogni cupezza, il sole filtrava dando vita a ombre lucenti, il sottobosco respirava di nuova linfa. Non v'era alcuna traccia dell'incubo in cui versavamo pochi attimi prima.

Ero stata vittima di un'allucinazione terrifica?

Eppure Victor era ancora lì con me e, benché provato, all'apparenza era tornato umano.

«E' tutto finito, Vic, Torniamo a casa» dissi riempiendo i polmoni d'aria fresca.

Non cercai spiegazioni ma abbracciai mio fratello per non lasciarlo andare via mai più. Scompariva nei vestiti, era magro tanto che temetti di fargli del male se avessi stretto poco di più. Mi persi in facili pensieri sul ritorno da nostra madre. Via quegli abiti fradici, l'avremmo amato nel tepore della nostra dimora e...

«E' te che vogliono ora» disse Victor con la sua dolce voce da bambino.

«Come dici?» mi allontanai per affondare nei suoi occhi un tempo brillanti adesso opachi, velati e liquidi, cerchiati di un nero livido su una pelle pallida e macerata. Non c'era traccia della vivacità del mio Victor, il senso di perdizione impregnava entrambi facendoci cadere in un vortice infernale. La paura tornò ma non lasciai la presa. Mi costrinsi a essere coraggiosa per lui.

«Verranno a prenderti. Le Presenze conoscono l'odore della tua anima Addie» sussurrò con le pupille verso il bosco. Sgomenta registrai il lieve tono di scherno col quale pronunciò quelle parole.

«Chi? Victor di cosa stai parlando?» dissi scuotendolo dalle minute spalle. Stavo perdendo la pazienza.

«Salve Miss, ha bisogno di aiuto?»

Mi voltai e vidi un uomo fermo sul fianco della strada in compagnia di un asino e un carretto vuoto. Sapeva di tabacco e fieno, odori che in quell'occasione accolsi come il profumo dei ciclamini che circondavano il cancello della nostra proprietà.

«Grazie mille» dissi stringendo la mano di Victor, «Io e mio fratello avremmo bisogno di un passaggio verso Mapple Street.»

«Sto tornando in paese. Posso darvi un passaggio se non disdegnate viaggiare su un carretto per il fieno» rispose ridendo. L'asino ragliò il suo assenso.

«Andrà benissimo» risposi con un lieve inchino del capo.

«Dov'è vostro fratello, Miss?» chiese guardando i dintorni.

«E'...» mi voltai verso Victor, avevo ancora la mano stretta attorno alla sua, ero sicura di non averlo lasciato un attimo se non per abbracciarlo.

Eppure non c'era. Al suo posto una pozzanghera d'acqua verdognola nella quale si rispecchiava il mio riflesso distorto. Il mio stesso viso ghignava fissandomi e io restai muta. Ricordo solo delle voci, quelle voci, che dicevano: “Verremo a prenderti, ormai sei nostra.” e persi i sensi.

In questa notte fredda la neve cade in piccoli e impetuosi vortici, vedo le ombre vicino alla mia finestra, come acquattate in attesa. Ho scelto di mettere tutto per iscritto sotto la luce tremolante della candela per non lasciare la mia dolce madre già provata senza una spiegazione nel caso dovessi sparire. La condannerei a morte certa altrimenti.

Ho dato istruzioni alla mia fedele tata, ormai al servizio di un'altra famiglia, di aprire l'asse del pavimento in cui nascondevo i miei tesori da piccola (solo lei ne è a conoscenza) e, nel caso non dovessi far ritorno, consegnare a mia madre la busta che ora mi accingo a chiudere assieme a una lettera personale indirizzata a lei.

Per quanto riguarda la mia sorte, non saprei illuminarvi oltre, dirò solo che se dovessi passare indenne questa notte funesta, ho intenzione di andare a cercare Victor per riportarlo a casa.

                                                                  Vostra Adelaide Howtorn

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