LA VEGLIA D'INVERNO - racconto

 



Sidhbri, Contea Donegal, Irlanda

31 Ottobre-1 Novembre 1895


La piccola Dana correva tra i viottoli lucidi di pioggia di Sidhbri.

Il borgo, rivolto a mezzogiorno, sorgeva su una collina solitaria circondata dall'alta bastionata montuosa a Nord e bagnata da due torrentelli che attraversavano il villaggio. Dana non era mai andata a valle, non conosceva che quelle case in pietra, dai tetti spioventi rosso arancio, che si inseguivano l'un l'altra verso l'alto fino a raggiungere la cima della collina dove tavole in legno, incastonate come gemme morte nel terreno, indicavano il luogo dell'eterno riposo.

Il cimitero non era luogo per bambini di dieci anni ma Dana non badava alle dicerie della gente, quando ancora la nebbia del mattino aleggiava sul suo naso all'insù, il sole intiepidiva appena le tegole e il vento fischiava tra i comignoli, lei si arrampicava sul cancello in ferro battuto attenta a non pungersi sulle piccole guglie che ornavano le estremità della griglia. Aveva un appuntamento a cui per nulla al mondo sarebbe mancata e giammai presentarsi senza un fiore o un sassolino o una foglia da lasciare alla sua mamma.

Quel giorno era speciale e Dana aveva trovato un dono appropriato per l'occasione che non vedeva l'ora di regalare. Sotto il cielo velato, con nubi nere all'orizzonte che presto avrebbero oscurato i raggi del mattino, Dana camminò tra le lapidi accarezzandone alcune, quelle coperte dal muschio con le incisioni sbiadite e l'erba alta a fare da cornice, talvolta sbilenche con parti inghiottite dal terreno bruno. Era triste sapere che la gente veniva dimenticata col passare degli anni, i vivi andavano avanti e i morti restavano inchiodati in un passato cristallizzato. Tre file a ovest si fermò davanti ad una pietra grezza, non ancora intaccata dal tempo, non ancora dimenticata, decorata dai pensieri che Dana aveva lasciato durante le sue visite.

“Liath O' Heart, Sidhbri 1863 – Sidhbri 1893.”

Dana appoggiò il fiore paffuto, bianco, setoso e profumato sulla terra umida e restò a guardare quella scritta incisa nel pezzo di granito. Ciò che più le mancava era il sorriso di Liath, il suono della sua risata mentre guardava la figlia con sguardo complice.

Dana tornò a quel maledetto giorno.

“Mamma sono qui, svegliati” le aveva detto scuotendola come se potesse strapparla alla morte; né la pelle fredda né il silenzio in risposta avevano convinto Dana dell'accaduto. Le accarezzò le mani giunte sul petto, non c'era traccia di calore, il suo sguardo cercò un segno, un movimento, qualunque cosa per urlare che la mamma era viva, di fermare tutto! Il respiro!

Avvicinò un dito sotto il naso, non un fiato e poi: dove erano finiti i denti? Perché non poteva vederli? La bocca socchiusa, i denti erano coperti: Liath non avrebbe mai più sorriso. La sua mamma era morta.

Il profumo di fiori arrivò puntuale ad asciugarle le lacrime; capitava ogni volta che gli occhi si inumidivano di solitudine, frustrazione, tristezza e paura. Dana non poteva vedere le anime che si erano raccolte commosse attorno a lei, erano le prime a ridestarsi dal sonno eterno, altre aspettavano il sopraggiungere della notte perché ancora troppo doloroso per loro vedere ciò che non potevano più assaporare.

“Sarà meglio che vada mamma, a domani” lanciò un bacio e andò via, oltre il cancello, seguita dal familiare senso di abbandono reciproco.

Nel giorno in cui ha inizio la nostra storia Sidhbri festeggiava la Veglia d'Inverno. Sin dalle prime vergini luci del mattino tutti gli abitanti, grandi e piccini, erano in fermento per i preparativi. Per il dedalo di vicoli lastricati di ciottoli c'erano cesti di dolcetti davanti ad ogni uscio, ceri in ogni dove avrebbero rischiarato la notte e zucche dal sorriso malefico, illuminate dall'interno, decoravano i davanzali delle finestre e i cornicioni dei muretti. Quella notte il velo che divide il mondo dei vivi dal Regno dei morti sarebbe calato.

Fantasmi sotto gli archi in pietra, streghe dalle facce verdi agli angoli delle strade con le loro vecchie scope in saggina, vampiri assetati di sangue e creature della notte dalle facce orripilanti si aggiravano in numero sempre maggiore col passare delle ore. Quelle mostruosità avrebbero tenuto lontani i demoni, nascosto gli umani ai loro perfidi sguarid. La fragranza della festa presto colmò l'aria, sapeva di pane caldo, vino caldo, castagne sul fuoco e pannocchie abbrustolite; il cicaleccio delle persone oltrepassava le mura, gli scherzi dei bambini risuonavano come musica. Nel giorno in cui si festeggiava la fine del raccolto e il ritorno dei pastori con le loro mandrie, la vita brulicava nelle vene dei Sidhbriani con paradossale ironia in attesa dei morti sulla Terra.

Dana era entusiasta, l'arrivo puntuale del freddo pungente non la preoccupava, amava la stagione invernale e l'odore di neve ne anticipava la venuta; la neve era magia bianca, legata ad un vago ricordo di felicità infantile quando ne mangiò una manciata per sentirne il sapore e affondò in un monticello bianco lasciato dalla vicina che aveva spalato la neve dalla strada, alle sue spalle la risata divertita della madre arrivata in soccorso per rimetterla in piedi. La sua impronta era più piccola di un porcospino.

“Buongiorno Mastro Van!” disse sbattendo i piedi sul tappetino per scrollasi i brividi di dosso.

“Buongiorno Dana, in giro presto anche oggi?” salutò il fornaio pulendosi le mani sul grembiule bianco di bucato e spargendo farina sulle superfici pulite come una folata di nevischio.

“Avevo una commissione da fare” spiegò Dana affacciandosi in punta di piedi aldilà del banco in legno, amava guardare le pagnotte esposte in ordine nei cesti in vimini, i ninnoli appesi alla parete, le note per gli ordini e l'omone che si muoveva con disinvoltura nel ristretto spazio a sua disposizione tra il banco e la merce.

“Come sta Sabh, eh?” chiese mastro Van e infilò due pagnotte ancora calde in un sacchetto di carta bruna.

“La nonna sta bene, mi sono offerta di fare la spesa mentre lei si occupa della casa.”

“Brava bambina” disse mastro Van porgendole il sacchetto bollente e fumante, “Lascialo leggermente aperto...”

“Altrimenti il pane si sforma” finì la frase Dana col sorriso birichino che metteva in mostra i suoi incisivi sporgenti, “Grazie Mastro Van, a stasera!” Uscì in tutta fretta lasciando dietro di sé il campanello tintinnare per un po'.

Corse fino alla piazza, svoltò in un vicoletto alla sua destra passando per una scalinata deformata dal tempo, salutò ora con un cenno della mano ora con una parola affannata tutti quelli che incontrò per strada fino a fermarsi davanti alla porta verde smeraldo della latteria.

Il profumo di formaggio riempiva la via, ben piantata su due piedi inspirò a occhi chiusi prima di entrare.

“Buongiorno Farvila!” esclamò Dana chiudendo la porta dietro di sé per non far entrare il gelo, sapeva che Farvila non lo amava, non quanto lei almeno, per tutta la stagione fredda Farvila si lamentava del freddo stropicciandosi le mani l'una nell'altra.

“Buongiorno Dana anche tu qui per il tuo pezzo di Bruss?” domandò allegra la lattaia, una donna giovane dalle braccia robuste e la vita stretta, con una cascata di capelli neri ricci raccolti in una treccia e nascosti sotto la cuffia merlettata.

“Sì, oggi la nonna ha detto di prenderne una forma intera” Dana saltellava sul posto, osservava tutto con rinnovata curiosità, canticchiava, non sapeva come contenere l'emozione: con Sabh avrebbero mangiato pane, formaggio e zuppa di zucca; dopo le faccende domestiche sarebbero scese mescolandosi con gli altri per assicurarsi i posti migliori al centro della piazza dove a turno gli adulti avrebbero raccontato Le paure: storie di streghe, fantasmi, sparizioni misteriose, spiriti tornati dal mondo dei Furono. Anche la sua mamma faceva parte di quel mondo ormai e Dana voleva sapere il più possibile su di loro.

“Non sarà troppo pesante?” chiese Farvila lasciando sul tavolo pieghevole il Bruss incartato e infiocchettato con un filo di spago sfilacciato. Dana tornò al presente con un balzo vertiginoso dalle sue fantasie (le capitava spesso di perdersi laddove nessuno poteva raggiungerla): “No, torno subito a casa, non sarà un problema”, rispose facendosi forte nel prendere la forma di formaggio e sistemarla sotto il braccio; si piegò leggermente per il peso ma subito drizzò la schiena per non darlo a vedere. Riprese il sacchetto di pane avendo cura di lasciare il foro d'uscita per il vapore e diede appuntamento per la sera così come aveva fatto con Mastro Van. Uscì a passo svelto dalla latteria, si fermò per accertarsi che la porta fosse ben chiusa e ripartì “Mai dimenticare le buone maniere” le diceva sempre la mamma.

La casa di Sabh era arroccata alla fine di una strada in salita ai confini occidentali di Sidhbri. Dana sbirciò da una delle finestre a sesto acuto, scostando di poco le zucche, e scorse la nonna intenta a cucinare. L'acquolina fece capolino e salì i tre gradini che la separavano dalla porta sorreggendosi con una mano alla rustica ringhiera di betulla; mancò due volte la serratura prima di riuscire a inserire la chiave e girarla nel chiavistello.

“Nonna, sono tornata!” gridò battendo i piedi sul tappeto.

“Dana non c'è bisogno di urlare bambina mia, sono qui.”

Sabh aveva un viso dai lineamenti spigolosi, magra e slanciata come la figlia Liath, i capelli argentati e lisci, raccolti in una lunga treccia sempre ordinata, gli occhi sapienti e malinconici che raccontavano un passato andato via troppo in fretta. Dana avrebbe voluto essere come lei e invece aveva sempre i capelli arruffati e ribelli, i gesti sgraziati, i movimenti maldestri, l'unica eredità era amare la lettura e leggere molto bene, oltre il naso all'insù.

“Ecco il pane e il formaggio”, annunciò appoggiando con fatica i due sacchetti sul tavolo della cucina, “Che dolce profumo!” disse puntando il naso all'aria ad occhi chiusi come se potesse mangiare quell'odore che impregnava ogni angolo della piccola casa.

“Mele caramellate con cannella!” Sabh soddisfatta, giunse le mani in grembo prima di riprendere a mescolare lo zucchero che avvolgeva le mele facendosi sempre più denso, una spolverata di cannella e continuò a girare assorta in chissà quale pensiero.

Dana aspettò che fossero pronte andando a scaldarsi davanti al camino seduta sul tappeto ai piedi della vecchia poltrona deformata mentre fuori la pioggia iniziò a picchiettare sui vetri delle finestre.

Non esiste al mondo un solo bambino che sappia aspettare. Il tempo rallenta mentre la gioia sfrigola sotto la pelle, le lancette ritardano a far dispetto e ogni tic tac si fa beffa del povero sventurato in attesa. Fu così anche per Dana. La nonna l'aiutò a indossare il vestito da strega cucino con le sue mani e finalmente si avvicinò all'appendiabiti per prendere il suo pastrano.

“Streghetta copriti bene, fuori ci sono raffiche di vento ed è piovuto per tutto il pomeriggio.” disse indossando una maschera che a Dana metteva i brividi. Avrebbe dovuto ricordarsi che sotto quei lineamenti mostruosi c'era sua nonna.

Uscirono accolte dal tramonto di cotone caramellato oltre la vallata, Dana saltellava poco più avanti, attraversarono il borgo passando per vie, viottoli, curve, salite e discese finché raggiunsero la piazza principale dove la gente stava giungendo in gruppetti, ognuno con qualcosa da offrire ai compaesani. Sabh aveva preparato un dolce speziato alle mele, lo lasciò accanto alle altre pietanze e si unì ai preparativi. Le donne imbandivano i tavoli disposti l'uno accanto all'altro per tutta la lunghezza del lato nord del piazzale, alcuni uomini sistemavano gli ultimi addobbi, altri trasportavano i barili di vino mentre i bambini correvano per tutto il perimetro dello slargo incuranti del maltempo: era la Veglia d'Inverno e per loro significava restare svegli fino a tardi, mangiare dolci senza rimproveri, giocare sotto una coperta di stelle, sgranocchiare pannocchie abbrustolite sul fuoco e caldarroste crepitanti.

Per gli adulti era un momento di svago, unione e pettegolezzo ma soprattutto era il momento in cui le proprie paure venivano affrontate con più leggerezza perché non erano soli nel buio dei loro orrori. Erano paure infantili, quelle a cui un adulto non deve credere se non vuole essere additato come ignorante, blasfemo o allocco. Ma la maggior parte di loro - mamme, papà, nonni, zii, lavoratori, maestri, pastori, contadini - credevano.

Il tramonto lasciò spazio al crepuscolo che a sua volta si dissolse nelle tenebre spezzate solo dalla luce tremolante delle lanterne, dei ceri e delle zucche. Le ombre si allungarono sulle pareti assumendo forme sinistre, le storie presero vita facendo accapponare la pelle alle signore, rizzare i capelli ai signori (che cercavano di mantenere un certo contegno virile) e stringere i bimbi tra le braccia dei genitori.

“Nonna devo andare in bagno”, bisbigliò Dana all'orecchio di Sabh.

“Vai in quello della locanda” disse la nonna assorta dalla storia di una nobildonna accusata di stregoneria nel 1587 e arsa al rogo due mesi dopo la sentenza ottenuta con un processo fasullo. Si narrava che la dama tornasse ogni anno nel giorno della sua condanna per tormentare le anime dei discendenti di coloro che ne avevano decretato la morte.

Dana si alzò e andò nella locanda a passo svelto. Al suo ritorno i musicisti si erano posizionati sul palchetto, gli adulti si stavano radunando attorno al falò per dare inizio alle danze, quelle che secondo la tradizione avrebbero fatto incontrare i cari defunti. Scorse la nonna parlare con Farvila sorseggiando del vino caldo, decise di raggiungere i bimbi che si intrufolavano tra i danzanti quando l'intenso profumo di fiori la investì. Guardò in giro, non un fiore vicino, nulla da cui potesse scaturire quella dolce fragranza floreale. Zucche sghignazzanti la osservavano, vicino agli usci scope in saggina a testa in su sembravano sapere qualcosa che Dana ancora non aveva scorto mentre gli abitanti del villaggio erano chiusi in una bolla, lontani.

Da dove proveniva? Controllò la via alle sue spalle, era illuminata da pozzi di luce che si alternavano a strisce oscure. Si avviò per di là ma il profumo divenne flebile, allora tornò sui suoi passi, a sinistra c'era la via sterrata che portava in una zona ormai disabitata del villaggio; era stata la dimora della Caillaeach Bheur, la vecchia donna divina, costretta a fuggire perché ritenuta colpevole della carestia che colpì Sidhbri nel XVI secolo. Si avvicinò e il profumo divenne più intenso, era come inseguire un foulard di petali trasportato sulle ali del vento. Il cappello del suo costume volò perdendosi nelle tenebre. Sapeva di non dover percorrere quella strada, un'insegna illuminata da un lanternino arrugginito recitava “Un tempo credevasi luogo di streghe”, al solo pensiero i nervi si incresparono dalla paura ma la curiosità vinse sul buon senso.

La piccola Dana si strinse nel suo pastrano, alzò il cappuccio sulla testa e seguì il profumo di fiori. Sono un'incosciente, pensò.

Si addentrò nel bosco dicendo a se stessa: “Un ultimo passo e torno indietro” ma a ogni metro guadagnato ne seguiva un altro. Il buio si infiltrava nel fitto della vegetazione addensandosi attorno ai tronchi e su verso le chiome fruscianti e poi una luce azzurrina disperse l'oscurità ai lati del sentiero. Gli alberi si piegavano ai capricci del vento, strattonati a destra e poi a sinistra, costretti a seguire una danza frusciante di cui nessuno conosceva i passi. Una mandria di nubi galoppanti fatte di fumo passò sopra le fronde nascondendo Dana alla Luna guardiana.

A Dana parve di essere stata catapultata in un'altra dimensione, l'aria era rarefatta e lei faticava a respirare.

La terra cedevole, gonfia d'acqua, attutiva lo scalpiccio di Dana sul tappeto di foglie secche che nascondevano la mulattiera, la piccola bambina continuava a seguire quel profumo ipnotico senza più badare al percorso.

In quello stato Dana non si accorse di quanto tempo aveva camminato, dietro di lei il vialetto dal quale era arrivata svaniva in una nebbia fitta, palpabile che respirava come una creatura viva.

Il casolare abbandonato comparve all'improvviso, svettava imponente davanti a Dana, con le finestre sbarrate da assi di legno, il muschio sulle pietre e il tetto cascante – il contenitore di tutte le tenebre del mondo lasciato scoperchiato – oltre c'era il vuoto, un dirupo che finiva a picco nel torrente Famin.

Il profumo prese corpo facendosi più deciso, un senso di vertigine rapì Dana che cadde in ginocchio sporcandosi i vestiti e le mani di fanghiglia e foglie marce. Il vento fischiava oltre il nulla insinuandosi tra le pieghe dei vestiti, Dana provò a proteggersi dal freddo penetrato sin nelle ossa; tutto in quel posto era diverso da ciò che conosceva, più intenso, vivo, ogni elemento aveva un'anima. Dana sperò che non avessero cattive intenzioni, se le fosse successo qualcosa avrebbe lasciato la nonna sola a piangere sulla sua discendenza estinta.

Si rialzò a fatica, pulì le mani sul suo pastrano “Accidenti la nonna mi sgriderà” sussurrò e ci sperò, meglio un castigo e un sonoro rimprovero che che...non ebbe il coraggio di finire la frase. Cercò di calmarsi e pensare a cosa avrebbe dovuto fare. Per andar via avrebbe dovuto rivolgere le spalle al casolare, i piedi erano inchiodati al suolo dal terrore. C'era qualcuno. Prese coraggio, alzò lo sguardo verso quell'ombra di pietra e fango e trasalì.

Si costrinse a non chiudere gli occhi, non voleva che la visione singolare svanisse, per lo stesso motivo non le si avvicinò.

“Mamma”, sussurrò alla figura che rispose con un sorriso: i suoi denti! Mamma!

Liath era davanti a lei in quel posto maledetto, quante volte aveva immaginato questo momento? Aveva passato tutte le notti prima che il sonno la raggiungesse a immaginare il loro incontro dopo la morte, a sperare di rivederla in sogno, e adesso?

Era esattamente come la ricordava sin nei minimi particolari, quelli nascosti nella memoria che riaffiorano solo nei sogni. Bellissima, con i capelli sciolti sulle spalle, il sorriso elegante tra due labbra sottili, le mani affusolate e gli occhi nocciola in cui Dana si era sempre riconosciuta.

Tutto quello che avrebbe voluto dirle morì tra il petto e la bocca, le parole avrebbero ridimensionato i suoi sentimenti come chiudere un mondo in un seme, allora fece l'unica cosa che allontanava le paure, abbracciò la sua mamma e iniziò a piangere.

“Non piangere, bambina mia” disse la madre stringendola forte a sé, ma Dana continuò a piangere tutte le parole che aveva tenuto dentro perché non c'era stato più nessuno a cui dirle, quelle scuse sussurrate alla terra fredda, i rimpianti urlati alle pareti sorde, i ti voglio bene muti, le feste monche, i regali mai scartati, i guai della solitudine, i traguardi non condivisi, il perdono, i chiarimenti, le occasioni mancate, i consigli e il timore del futuro quando anche la nonna sarebbe andata via. Si lasciò cullare tra le braccia di Liath, le nocche delle mani bianche per la stretta sui suoi vestiti, aveva paura di non vederla più se avesse riaperto gli occhi. Era a casa.

“Mi manchi” disse Dana singhiozzando sui seni che l'avevano nutrita.

“Lo so”, rispose Liath accarezzandole i capelli per portarli dietro le orecchie.

Dana smise di piangere: la madre sapeva.

Quelle due parole piccole, stringate, brevi arrivarono come una tempesta a spazzare i sensi di colpa di Dana, il peso nel giovane cuore della piccola svanì trasformandosi in un battito d'ali di farfalla.

La madre sapeva tutto.

“Non abbiamo molto tempo, devi ascoltarmi Dana” disse Liath cercando lo sguardo della figlia.

“Tu sei qui, non ti lascerò andar via di nuovo!” esclamò lei aggrappata alla pelle della mamma sotto i vestiti.

Liath le rivolse uno sguardo colmo di comprensione e Dana ci vide determinazione, qualunque cosa avesse detto la madre lei non avrebbe potuto fare nulla.

“Dana, tu sei la mia eternità. Devi proseguire per la tua strada, vivere il tuo tempo anche se il mio è presto finito. Io vivo in te, quindi vivi, alza gli occhi al cielo, contempla le stelle, corri sulla spiaggia d'inverno, bagnati i capelli sotto la pioggia, cammina a piedi nudi sui prati e sdraiati sulle foglie secche, sii curiosa, festeggia il Natale, nuota nuda nel mare, sii libera, ridi fino alle lacrime e ama, figlia mia, ama te stessa come ti amo io, ama gli altri e lasciati amare.”

Tornò il silenzio, una carezza calda le asciugò il viso, Dana avvicinò la guancia alla spalla per trattenere la mano.

“Promettilo” disse con un tono implorante che non ammetteva repliche.

Dana annuì.

“Ho bisogno di te, mamma” disse.

“Lo so, bambina mia” rispose scostandole la frangia, “È ora di andare.”

La mamma sistemò il pastrano della figlia indugiando sulle pieghe dell'abito per rubare tempo al tempo e rimandare l'inevitabile. Ripercorsero la strada al contrario mano nella mano, allontanandosi da quella casa che ora a Dana faceva meno paura. Dana camminava a passo lento memorizzando ogni lineamento, ogni ruga d'espressione.

“Ricorderò la tua voce? Ho paura di scordare mamma.”

“Non lo so bambina ma ricorda le mie parole, va bene?”

La musica, dapprima lontana e confusa, divenne sempre più nitida e udibile; le urla dei bambini si fecero più vicine unendosi troppo presto al chiacchiericcio delle persone e allo scalpiccio delle danze. Più si avvicinavano alla vita, più la madre perdeva consistenza, i bordi non erano più nitidi, tremolavano confondendosi con l'aria, le mani non erano più calde e la voce risuonava lontana finché giunte all'imbocco della via, sotto l'insegna ammonitrice illuminata dalla lanterna, si fermarono.

“Cosa c'è?” chiese Dana accorgendosi di non stringere più la mano della madre ormai sfumata.

“Lo sai, io non posso venire.”

Dana avrebbe voluto protestare ma non lo fece, era una lacrima quel luccichio che rigava la guancia della mamma?

“Sarai felice mamma?” mormorò.

“Se lo sarai tu, sì”, rispose affabile, “Ricorda io sono i fiori.” l'ultima parola fu solo un sibilo nel vento.

“No! Mamma, mamma!”, urlò Dana in preda alla disperazione.

Liath sparì come era comparsa. Dana non si mosse, il profumo dei fiori la avvolse. Era andata via restando lì con lei. E Dana capì, anche la prima volta aveva fatto così, non l'aveva mai lasciata davvero. Stordita, si avviò verso la piazza promettendo all'universo che avrebbe vissuto per entrambe senza rimpianti.

La nonna era ancora impegnata con Mary, la gente danzava, il tempo sembrava non essere trascorso per gli altri.

“A cosa devo questo?” chiese Sabh quando Dana l'abbracciò, lei rispose con un sorriso, l'aveva imparato dalla mamma e insieme si unirono all'ultima danza della veglia d'Inverno circondate dai fiori, una credenza per molti, una verità per pochi. La realtà per Dana.


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